Lo scorso 30 gennaio 2020 la 1ª Corte d’Assise di Milano, chiamata a giudicare sulla responsabilità penale di Marco Cappato in ordine al reato d’induzione e aiuto al suicidio[1] di Dj Fabo, ha depositato le motivazioni con cui assolveva l’imputato per insussistenza del fatto.
Si tratta di un caso davvero molto delicato, di forte scalpore mediatico, che ha diviso l’opinione pubblica fra chi condivide questa sorta di eutanasia e i contrari.
Con il post di oggi vogliamo fare chiarezza, cercando di spiegare l’iter logico argomentativi seguito dalla Corte d’Assise, a valle della pronuncia della Corte Costituzionale, per giungere alla pronuncia assolutoria.
In particolare, il giudice delle leggi[2] ha dichiarato non conforme alla Costituzione una parte del reato contestato, affermando la non punibilità dell’aiuto al suicidio qualora venga agevolata “l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi” di una persona “a. affetta da patologia irreversibile e b. fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia c. tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti d. capace di prendere decisioni libere e consapevoli”.
Dunque, la Corte Costituzionale ha escluso la punibilità, e quindi la condanna in sede penale, di colui che, al ricorrere dei presupposti testé specificati, con la propria condotta aiuti un soggetto nell’esecuzione del suicidio.
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[1] Previsto dall’art. 580 codice penale.
[2] La Corte Costituzionale è così chiamata in quanto il suo ruolo è quello di verificare la conformità e il rispetto delle norme alla Costituzione.